Prima di iniziare il racconto del “mio” AVATrail, mando un
saluto ed un abbraccio a Gianluigi Quario che ha perso la vita durante la
gara. Non ti conoscevo, ma avere una
passione in comune come la nostra rende uniti ed amici, comunque. R.I.P.
La sveglia puntata alle 4:58 mi ricorda piacevolmente la mia
anormalità ribelle, quell’uscire fuori dagli schemi e fuori dal razionale, per
tuffarmi nel mio mondo, popolato da sogno, fantasia, “pensiero laterale”, come
mi piace definirlo, una strada alternativa, magari poco battuta, per
raggiungere comunque i miei scopi. E si vede anche dalle piccole cose, quindi
iniziare la giornata con quei due minuti di anticipo rispetto alle 5, mi regala
un attimo di soddisfazione, utile per mitigare la sofferenza della levataccia.
Si parte per una gara a Molini di Triora, località che si
rivelerà bellissima, ma che conosco solo per “sentito dire”.
Non mi soffermo sulla menata del viaggio in macchina, che è
alleviato solo dalla musica e dal fatto che l’autostrada è praticamente
deserta, ma mi dirigo immediatamente al dunque, Molini di Triora, AVA Trail “Red”,
21,5 km di corsa tra boschi e sentieri della Valle Argentina, fino ad arrivare
sulla punta del Monte Goina, a 1060 m slm. Sulla carta un percorso non
eccessivamente impegnativo.
Le facce sorridenti degli amici che incontro sul posto mi
riportano immediatamente al motivo per il quale ho scelto il Trail Running, la
corsa in Natura; c’è qualcosa di diverso, di magico, di primitivo se vogliamo,
si respira un’aria pura, incontaminata, quasi sacra; siamo veramente tutti “fratelli”,
pronti a condividere emozioni, agonismo, sudore e fatica, ma sorridenti,
sorrisi sinceri, sorrisi che aprono i cuori che ti rendono partecipe di
qualcosa di grande, qualcosa che parte dal rispetto del luogo in cui si corre,
per arrivare al rispetto degli altri e di sé stessi.
Il primo sorriso che incontro è quello di Roberto, che è
arrivato prestissimo e si gode l’aria fresca e frizzante del mattino, poi alla
spicciolata tutti gli altri, Eugenio, Ivan, Alberto, Pablo e Virginia, Enrico, Antonio, amici/avversari; ma soprattutto
amici. In ultimo un sorriso che non mi aspettavo di trovare, ma proprio per
questo motivo ancora più gradito. Il sorriso rassicurante e senza tempo di Marco
Olmo, leggenda vivente dell’Ultra Trail running; mi avvicino quasi timoroso, ci
diamo la mano, scambiamo due parole, come se ci conoscessimo da sempre, invece
è la prima volta che lo incontro. Un mito.
Parte la gara lunga, l’AVA Trail “Blu”, applaudo tutti i
protagonisti, ma faccio segretamente il tifo per Ivan.
Ora tocca a noi. Nei minuti che precedono la partenza la
testa viene attraversata da decine di pensieri, anche diversissimi tra loro e
spesso apparentemente scollegati, a volte addirittura confusionari. Cerco di
mettere a fuoco, faccio un bel respiro, chiudo un attimo gli occhi e ancora un
bel respiro. Eccomi, ORA mi ritrovo. Sento il mio corpo che in automatico
risponde ai comandi, i rituali del riscaldamento si svolgono senza nessun intervento
cosciente, è solo la mia parte profonda che ordina, e l’organismo puntale
esegue, come un ingranaggio perfettamente funzionante. Sono venuto per vincere,
continuo a ripetermi in testa il mantra odierno… “Fai quello che sai fare
meglio, fai quello che sai fare meglio, fai quello che sai fare meglio… corri,
corri, corri… e così via fino a renderlo una nenia ipnotica, ma che carica come
una molla, ho la pelle d’oca. Siamo in un bel gruppo, parecchi podisti di
livello. Non sarà assolutamente facile, ma non voglio che lo sia, voglio
provarci, sento quella vocina dentro che mi sussurra, “Vai e provaci”. E allora
vado, e allora provo.
Il via arriva quasi come una liberazione, gladiatori che
entrano nell’arena, il pubblico che urla, l’energia sopita fino ad un attimo
prima si scatena in un liberatorio calpestio del selciato, in un ululato alla
luna, in un vulcano che erutta la sua furia, in un mare in tempesta, in una
corsa selvaggia e primordiale che ti rimette in pace con il mondo.
Ho i miei motivi. Forti, che scavano in me come la goccia
scava la roccia. Devo obbligatoriamente dare il meglio, aspettavo questo
momento. Sono luce e cerco altra luce, mi abbraccio ad essa in una stretta che
non ha fine, che non può avere fine. Vedo l’infinito e mi lascio accogliere da
esso, sento cuori battere con lo stesso ritmo, radici che si incrociano, che si
fondono l’una nell’altra, fino a diventare UNO. Sento che ho l’obbligo di
rendere fiero che crede in me, chi si fida di me. Ho solo un modo, fare quello
che so fare meglio e farlo nel modo migliore possibile. Non sono obbligato a
vincere, voglio farlo. O crollare nel provarci.
Parto a bomba, forte, deciso, non mi guardo indietro neanche
un secondo, il passo è sicuro, il respiro rilassato, le spalle morbide. Scelgo
di “ammazzare” la gara nell’unico modo che conosco; provare a tenere un ritmo
indiavolato, da subito. E funziona, il gruppone si sgretola metro dopo metro,
sempre di più. I primi chilometri sono una carneficina. Rimaniamo solo in tre,
io sono davanti e sto bene. Ho fuoco dentro, mi perdo in esso, mi lascio
bruciare. Brucio d’energia.
Il dolore arriva inaspettato, mi riporta un attimo alla
realtà. Una storta, violenta. Un rumore sinistro “Crac”. Faccio un paio di
passi, sembro poter controllare il male. Proseguo.
La salita si rivela durissima, forse pago un po’ la partenza
sprint, ma sono sempre nel terzetto di testa, anche se adesso comincio a
faticare un po’. Nel bosco ho un momento di buio. Non riesco a capire cosa sia
successo. Dovrò analizzarlo, sicuramente. Mi spengo. Per poco, forse un paio di
chilometri scarsi. Mi accorgo di andare piano, ma non riesco a scuotermi.
Così come è arrivata, la crisi passa. Riparto forte.
Alla discesa finale sono ancora terzo, quando un’altra
fucilata alla caviglia, la stessa di prima, arriva a turbare gli ultimi
chilometri di corsa. Questa l’ho sentita. Questa fa male. Continuo, a testa
bassa, quasi zoppicando fino all’ultimo tratto in asfalto, dove provo a correre
come so fare, incurante del dolore. Quinto al traguardo. Soddisfatto perché ho
fatto del mio meglio, un po’ meno soddisfatto del risultato. Pazienza.
Adesso la caviglia sembra una melanzana, ci vorrà un po’ di
riposo e vedremo cosa è successo. Il dolore mi ricorda che sono vivo, quindi lo
accetto serenamente, così come accetto serenamente l’eventualità di stare fermo
per un periodo se non dovesse passare. Vedremo.
“Chiede l’allievo al maestro Zen: “Maestro come fai a vedere
le cose così chiaramente?” “Chiudo gli occhi”.
Adesso chiudo gli occhi e tutto ciò che devo vedere è qui
davanti a me. Sempre…
E questo mi basta.
Federico Saccani