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domenica 23 giugno 2013

AVA Trail





Prima di iniziare il racconto del “mio” AVATrail, mando un saluto ed un abbraccio a Gianluigi Quario che ha perso la vita durante la gara.  Non ti conoscevo, ma avere una passione in comune come la nostra rende uniti ed amici, comunque. R.I.P.

La sveglia puntata alle 4:58 mi ricorda piacevolmente la mia anormalità ribelle, quell’uscire fuori dagli schemi e fuori dal razionale, per tuffarmi nel mio mondo, popolato da sogno, fantasia, “pensiero laterale”, come mi piace definirlo, una strada alternativa, magari poco battuta, per raggiungere comunque i miei scopi. E si vede anche dalle piccole cose, quindi iniziare la giornata con quei due minuti di anticipo rispetto alle 5, mi regala un attimo di soddisfazione, utile per mitigare la sofferenza della levataccia.
Si parte per una gara a Molini di Triora, località che si rivelerà bellissima, ma che conosco solo per “sentito dire”.
Non mi soffermo sulla menata del viaggio in macchina, che è alleviato solo dalla musica e dal fatto che l’autostrada è praticamente deserta, ma mi dirigo immediatamente al dunque, Molini di Triora, AVA Trail “Red”, 21,5 km di corsa tra boschi e sentieri della Valle Argentina, fino ad arrivare sulla punta del Monte Goina, a 1060 m slm. Sulla carta un percorso non eccessivamente impegnativo.
Le facce sorridenti degli amici che incontro sul posto mi riportano immediatamente al motivo per il quale ho scelto il Trail Running, la corsa in Natura; c’è qualcosa di diverso, di magico, di primitivo se vogliamo, si respira un’aria pura, incontaminata, quasi sacra; siamo veramente tutti “fratelli”, pronti a condividere emozioni, agonismo, sudore e fatica, ma sorridenti, sorrisi sinceri, sorrisi che aprono i cuori che ti rendono partecipe di qualcosa di grande, qualcosa che parte dal rispetto del luogo in cui si corre, per arrivare al rispetto degli altri e di sé stessi.
Il primo sorriso che incontro è quello di Roberto, che è arrivato prestissimo e si gode l’aria fresca e frizzante del mattino, poi alla spicciolata tutti gli altri, Eugenio, Ivan, Alberto, Pablo e Virginia, Enrico,  Antonio, amici/avversari; ma soprattutto amici. In ultimo un sorriso che non mi aspettavo di trovare, ma proprio per questo motivo ancora più gradito. Il sorriso rassicurante e senza tempo di Marco Olmo, leggenda vivente dell’Ultra Trail running; mi avvicino quasi timoroso, ci diamo la mano, scambiamo due parole, come se ci conoscessimo da sempre, invece è la prima volta che lo incontro. Un mito.
Parte la gara lunga, l’AVA Trail “Blu”, applaudo tutti i protagonisti, ma faccio segretamente il tifo per Ivan.
Ora tocca a noi. Nei minuti che precedono la partenza la testa viene attraversata da decine di pensieri, anche diversissimi tra loro e spesso apparentemente scollegati, a volte addirittura confusionari. Cerco di mettere a fuoco, faccio un bel respiro, chiudo un attimo gli occhi e ancora un bel respiro. Eccomi, ORA mi ritrovo. Sento il mio corpo che in automatico risponde ai comandi, i rituali del riscaldamento si svolgono senza nessun intervento cosciente, è solo la mia parte profonda che ordina, e l’organismo puntale esegue, come un ingranaggio perfettamente funzionante. Sono venuto per vincere, continuo a ripetermi in testa il mantra odierno… “Fai quello che sai fare meglio, fai quello che sai fare meglio, fai quello che sai fare meglio… corri, corri, corri… e così via fino a renderlo una nenia ipnotica, ma che carica come una molla, ho la pelle d’oca. Siamo in un bel gruppo, parecchi podisti di livello. Non sarà assolutamente facile, ma non voglio che lo sia, voglio provarci, sento quella vocina dentro che mi sussurra, “Vai e provaci”. E allora vado, e allora provo.
Il via arriva quasi come una liberazione, gladiatori che entrano nell’arena, il pubblico che urla, l’energia sopita fino ad un attimo prima si scatena in un liberatorio calpestio del selciato, in un ululato alla luna, in un vulcano che erutta la sua furia, in un mare in tempesta, in una corsa selvaggia e primordiale che ti rimette in pace con il mondo.
Ho i miei motivi. Forti, che scavano in me come la goccia scava la roccia. Devo obbligatoriamente dare il meglio, aspettavo questo momento. Sono luce e cerco altra luce, mi abbraccio ad essa in una stretta che non ha fine, che non può avere fine. Vedo l’infinito e mi lascio accogliere da esso, sento cuori battere con lo stesso ritmo, radici che si incrociano, che si fondono l’una nell’altra, fino a diventare UNO. Sento che ho l’obbligo di rendere fiero che crede in me, chi si fida di me. Ho solo un modo, fare quello che so fare meglio e farlo nel modo migliore possibile. Non sono obbligato a vincere, voglio farlo. O crollare nel provarci.
Parto a bomba, forte, deciso, non mi guardo indietro neanche un secondo, il passo è sicuro, il respiro rilassato, le spalle morbide. Scelgo di “ammazzare” la gara nell’unico modo che conosco; provare a tenere un ritmo indiavolato, da subito. E funziona, il gruppone si sgretola metro dopo metro, sempre di più. I primi chilometri sono una carneficina. Rimaniamo solo in tre, io sono davanti e sto bene. Ho fuoco dentro, mi perdo in esso, mi lascio bruciare. Brucio d’energia.
Il dolore arriva inaspettato, mi riporta un attimo alla realtà. Una storta, violenta. Un rumore sinistro “Crac”. Faccio un paio di passi, sembro poter controllare il male. Proseguo.
La salita si rivela durissima, forse pago un po’ la partenza sprint, ma sono sempre nel terzetto di testa, anche se adesso comincio a faticare un po’. Nel bosco ho un momento di buio. Non riesco a capire cosa sia successo. Dovrò analizzarlo, sicuramente. Mi spengo. Per poco, forse un paio di chilometri scarsi. Mi accorgo di andare piano, ma non riesco a scuotermi.
Così come è arrivata, la crisi passa. Riparto forte.
Alla discesa finale sono ancora terzo, quando un’altra fucilata alla caviglia, la stessa di prima, arriva a turbare gli ultimi chilometri di corsa. Questa l’ho sentita. Questa fa male. Continuo, a testa bassa, quasi zoppicando fino all’ultimo tratto in asfalto, dove provo a correre come so fare, incurante del dolore. Quinto al traguardo. Soddisfatto perché ho fatto del mio meglio, un po’ meno soddisfatto del risultato. Pazienza.
Adesso la caviglia sembra una melanzana, ci vorrà un po’ di riposo e vedremo cosa è successo. Il dolore mi ricorda che sono vivo, quindi lo accetto serenamente, così come accetto serenamente l’eventualità di stare fermo per un periodo se non dovesse passare. Vedremo.
“Chiede l’allievo al maestro Zen: “Maestro come fai a vedere le cose così chiaramente?” “Chiudo gli occhi”.
Adesso chiudo gli occhi e tutto ciò che devo vedere è qui davanti a me. Sempre…
E questo mi basta.
Federico Saccani

domenica 16 giugno 2013

Luce





Non riesco a crederci.
Sono passati giorni dall’ultima trasformazione. Eppure…
Non era mai successo. Almeno non era mai successo in maniera così forte, profonda, penetrante. Ricordo tutto, ogni minimo particolare, tutto. E quella luce. Quella luce…
Stavo correndo, libero, selvaggiamente libero; la falce di luna nel cielo sereno era stata più che sufficiente a scatenare la mia anima animale, nessuna paura, nessun pensiero, o forse uno solo? Non saprei dire. Si un pensiero c’era. Sempre lo stesso. Le immagini del bosco si susseguivano nitide, gli odori permeavano il mio cervello, primitivo, ma terribilmente efficiente, l’istinto mi guidava come il più moderno dei navigatori, ma non avevo meta, o almeno così credevo.
Un salto, una corsa, un salto, ancora uno, mi fermo, urlo al cielo tutto me stesso, in un ululato che è cuore, che è coraggio, che è amore. Riprendo la corsa, sempre più veloce, sempre più libero, ribelle.
Improvvisamente qualcosa scuote i miei sensi, una risata? Una voce? Un sorriso? Occhi che mi leggono dentro? Non saprei dire; non riesco a mettere a fuoco, immagini indistinte occupano il mio campo visivo, non mi rendo nemmeno conto di aver alzato il pelo sul dorso, mentre un verso gutturale esce violento dalla mia bocca. Non riesco a muovermi; paura? Forse, ma anche attrazione per quella danza di forme che non riesco a distinguere. Sono bagliori, dapprima tenui, poi sempre più intensi, non sembrano pericolosi, anzi, sento quasi immediatamente le mie difese rilassarsi, l’istinto mi dice di seguirli, la mia poca razionalità mi dice di fuggire. Chiudo gli occhi e provo a concentrarmi, provo a sentire, lascio che sia la mia interiorità a guidarmi.
Bastano pochi momenti e, quasi senza rendermene conto, mi trovo ad avanzare verso questi bagliori indefiniti.
Non c’è un inizio vero e proprio. Tutto succede in un istante. O almeno così mi sembra. Un rumore assordante di mille urla penetra nelle mie orecchie, ma non fa male, sento parole dolci che si susseguono, una dopo l’altra, sento mani che mi sfiorano, sento mani che si stringono, carezze, respiri e occhi che guardano e mi fanno sentire nudo, impotente. Ma sto bene. Ora. E ancora voci, ancora risate, e ancora mani e occhi mi stringono in un abbraccio che non ha fine. E poi la luce. Quella luce che mi inonda, calda e fresca allo stesso tempo, penetra in ogni mio spazio, mi riempie di vita, di amore, di una marea di sensazioni indescrivibili; sento di rinascere; sono uomo e sono lupo, sono vento che danza tra le cime degli alberi e sono pioggia che disseta la terra, mi vedo correre libero e ribelle e mi vedo seduto a contemplare un viso bellissimo, sento le mie urla selvagge gridare al cielo e sento il mio silenzio ricevere l’eterno. Mi accorgo di vedere chiaramente; tutto, come se mi levassero una benda dagli occhi. Ora sono vivo. Ora.
Ci penso ancora. Sono passati giorni, ma ci penso ancora. Nulla è più come prima.
Cerco quella luce, ogni istante, sempre.
Passeggiare mi ha sempre fatto bene, devo scuotermi. Le cuffie isolano il mio intercedere dal mondo esterno, lo sguardo è fisso avanti, sempre un solo pensiero in testa. Sempre quello.

Non cerco contatti con il mondo esterno, ho voglia di stare solo con me stesso, voglio ricordare ancora, voglio marchiare a fuoco nella mia memoria quella luce. I passi spediti mi fanno sentire subito bene, lascio l’energia pulsare in me, come se quell’abbraccio luminoso non mi avesse mai abbandonato, il ritmo della musica rende piacevole anche la timida pioggerellina che ha iniziato a cadere; ironia della sorte la playlist ha deciso che dovesse toccare a “Wish You Were Here, nella versione fighissima cantata da Wyclef Jean”… “How I Wish, How I Wish You Were Here – Come Vorrei, Come Vorrei Che Tu Fossi Qui”, mi lascio trasportare dalla magia del testo, chiudo gli occhi per un istante e…

…Bisbigli, bisbigli, bisbigli… “chi sei, chi sei, chi sei…” bisbigli, bisbigli, bisbigli “stai qui con noi, stai qui con noi, sati qui con noi…” il vecchio col bastone mi compare davanti all’improvviso, il suo sorriso è caldo, quasi un abbraccio. “Cammina con me”. Non è una richiesta, è un ordine, ma la cosa non mi dispiace. Il bimbo con gli occhi grandi corre vicino a noi, mangia un gelato, direi stracciatella e nocciola, ma non capisco perché mi soffermo su quel dettaglio. Il posto senza nome è meraviglioso questa volta, una moltitudine di colori e profumi e pietre, pietre bianche come non ne esistono.

“Scegline una”. La voce del vecchio col bastone risuona nella mia testa, la sua mano indica alcune pietre disposte in ordine in un angolo. Il bimbo con gli occhi grandi mi sorride. “Scegline una”. Sembro ipnotizzato. Ho una mia volontà, ma obbedisco con piacere alle indicazione del vecchio col bastone.

“Posso prendere quella?” indico un sasso particolare. Non è bianco, la sua forma è strana, mi ricorda qualcosa, ma adesso non saprei dire.

Il vecchio col bastone sorride, il bimbo con gli occhi grandi annuisce e corre via, una luce fortissima si alza dal suolo e mi avvolge in una stretta piacevole. E’ quella luce, è quella luce e io mi abbandono, mentre occhi neri di notte mi fissano, sembrano felici.

La vibrazione del telefono in tasca mi riporta alla realtà, scuoto il capo incredulo, le cuffie passano Jovanotti “Il Più Grande Spettacolo Dopo Il Big Bang Siamo Noi, Io e Te!!!”, faccio due passi per rendermi conto di essere vivo mentre guardo il display e vedo un messaggio.

Sorrido. Sempre un solo pensiero in testa. Sempre quello.

Rispondo al messaggio “Penso a te”, poca fantasia, uguale a quello ricevuto.

Sorrido. In mano ho un sasso. La forma particolare, ora la riconosco. Ora…

Federico Saccani

domenica 9 giugno 2013

Foglio Bianco







… Il foglio bianco proprio non ne voleva sapere. Era lì. Lo fissava, quasi con aria di sfida, rendendo ancora più improbabile la stesura di qualche riga, quantomeno grammaticalmente corretta.

Eppure i rituali erano stati ineccepibili: allenamento mattutino, sana alimentazione, passeggiata defaticante, pensieri positivi, sorriso alla vita; generalmente la penna avrebbe preso vita da sola e trasformato in racconto tutte le idee, tutta la confusione esplosiva presente nel suo cervello.

Uscire. L’unica soluzione possibile. Staccare la spina ed uscire; una boccata d’aria fresca non poteva che fare bene.

La strada corre silenziosa sotto le scarpe, i rumori di fondo, attutiti dal berretto calato fin quasi sugli occhi, sono piacevoli compagni di viaggio, la luce crepuscolare emana deboli bagliori cremisi, facendo sperare in una giornata soleggiata l’indomani. I pensieri cercano ordine in testa, sperando in un’ ispirazione che tarda ad arrivare.

Un suono, forse il Bipbipbip del telefono, ma non c’è tempo di reagire. Il colpo arriva inaspettato, sorprendente, efficace. Non è doloroso, ma in un attimo si ritrova schiena a terra, senza fiato.

“Chi sei, chi sei, chi sei…” mille voci si inseguono, bisbigli inquietanti, risate raccapriccianti. Il vecchio con il bastone lo squadra, sembra sorpreso di vederlo.

Il posto senza nome si mostra per quello che è. Un viaggio verso se stessi. Dentro se stessi. Non si può andare via, non si può spiegare, bisogna viverlo. “Chi sei, cosa cerchi, chi sei, cosa cerchi…” ancora bisbigli, ancora voci, ancora paura. Si, adesso ha paura.

Poi un pensiero, una visione. Occhi. Occhi che guardano. Neri. Neri come la notte, profondi come il mare. Un’ancora di salvezza, una scintilla di vita, una luce che riscalda il cuore. E si aggrappa a quella visione. E si aggrappa a quel pensiero, con tutta la forza, con tutto il coraggio, con tutto l’amore.

Bipbipbip… il trillo che annuncia un messaggio sul telefonino penetra dolorosamente nel cervello, la luce della lampada definisce i contorni dello studio, della scrivania, del foglio. Già il foglio.

La penna comincia a scorrere fluida, le parole, una dopo l’altra, costruiscono un viaggio. Verso se stessi, dentro se stessi. Appena un’occhiata al telefonino… “Amore Mio” il messaggio, “Amore Mio” la risposta.

Un sorriso incornicia il volto, un pensiero, fisso, costante, rende viva la sua mente. Sempre. E il racconto prende vita…

Federico Saccani