Pac, pac, pac… il rumore dei passi sull’asfalto è leggero,
dentro di me sento un ritmo quasi musicale, un metronomo che scandisce ogni mia
falcata, instancabile, ma sono consapevole che passa inosservato a chi mi
guarda, come inosservato passa il mio stato d’animo. Mi sento elettrico, sento
la dinamite nelle gambe, inarrestabile, tutto funziona alla perfezione, ogni
passo è musica e rumore, grida e silenzio, fuoco ed acqua, tutto e nulla; nella
mia evidente imperfezione sento lavorare il mio corpo come una macchina
perfetta, oliata, lubrificata al punto giusto, efficiente, senza nessuno
spreco, senza nessuna dispersione di energia; energia che come una palla
incandescente rende la mia mente libera, il mio cuore colmo e senza
esagerazioni mi regala la sublime sensazione di volare.
Le strade, conosciute, donano l’atmosfera di casa, le
macchine che incontro sono una piacevole cornice di luce che, nella penombra
del crepuscolo, viene comoda per evitare capitomboli e per vedere bene in volto
le facce che incrocio, gli stessi sguardi che solitamente evito, questa sera
vengono marchiati a fuoco nella mia testa, non capisco il perché, ma la cosa in
effetti non mi disturba, continuo a correre, continuo a farlo bene, continuo a
stare bene.
Non guardo l’orologio, lo faccio raramente, ma oggi non vale
la pena ancorarsi al razionale, oggi sento che è importante lasciarsi andare;
tanto manca poco.
Pac, pac, pac… i miei passi amplificano il loro rumore,
strano, mi dico o forse no. Li sento più forti, più penetranti, ma, ma, cosa
succede, cerco di scuotere l’attenzione e mi accorgo che non è il rumore dei
passi ad essere più forte, non c’è più altro rumore che quello dei passi…
Rallento, quasi incredulo, nessuna macchina, nessuna luce, nessuna persona.
Inconsciamente il mio corpo decide di non fermarsi,
corricchiando proseguo su quella stessa strada, tanto familiare prima, come
tanto sconosciuta adesso. Mi guardo intorno incredulo, rallento ancora.
“Figliolo”. Dapprima non ci faccio caso. “Figliolo”, la voce
alza di tono e mi costringe a voltarmi. Il vecchio col bastone è seduto su di
una panchina, tiene sul grembo una pietra bianca, bianchissima. Come non ne
esistono. Mi chiama. In teoria dovrei averlo superato pochi secondi prima, ma
non mi sono accorto né del vecchio, né della panchina…
“Siediti figliolo”. E’ la prima volta che sento così bene la
sua voce, non muove le labbra, è come se mi parlasse direttamente nella testa.
Sorride, non riesco a capire il motivo, dovrei essere spaventato, ma sono
tranquillo, quasi rilassato, quasi mi trovassi a colloquio con un vecchio
amico, o con me stesso. “Sai chi sono?” mi chiede. Il mio silenzio riempie
l’atmosfera come un macigno. Scuoto il capo in segno di diniego. “Guarda dentro
di te”. Mi sembra faccia più freddo. O forse più caldo, non riesco a mettere a
fuoco, sento un sudore gelido bruciare il mio corpo, ora inizio ad inquietarmi…
“Non so dove guardare!!!!” urlo, forse più forte di come avrei voluto, ma dalla
mia bocca non esce alcun suono. “Lì troverai la risposta”, il vecchio col bastone
colma di melodia la mia mente, la sua voce flautata riesce a tranquillizzarmi,
ancora. Si alza una brezza gentile ad accarezzarmi.
Respiro…
Guardo dentro ai suoi occhi e capisco che mi conosce meglio
di quello che penso.
“Hai ancora molto da imparare, hai ancora molte strade da
percorrere, dentro di te troverai la risposta”. La sua mano afferra la mia con
una forza inaspettata, la apre mettendole dentro un qualcosa, o così mi pare e
stringendola violentemente a pugno; vengo risucchiato in un vortice, una
spirale di emozioni che rischia di travolgermi, rivedo la mia vita, bambino,
ragazzo, uomo, e poi strade che si incrociano, che si intrecciano in un
labirinto senza fine, e poi occhi che piangono, occhi che ridono, occhi che mi
guardano, un lupo ulula selvaggio, mentre un falco in picchiata tende gli
artigli per ghermire la sua preda, l’acqua tempestosa di un torrente di
montagna, il sole caldo sulla sabbia rovente d’estate, “Sai chi sono?” “Sai chi
sono?”.
Respiro…
Pac, pac, pac… il rumore dei miei passi è sempre una
sicurezza. Anche questa volta riporta il mio subconscio ad una realtà dalla
quale mi stacco sempre più frequentemente. La mia corsa continua regolare, la
strada è quella conosciuta, il rumore delle macchine è familiare e
rassicurante. Un sospiro di sollievo altera l’equilibrio della mia
respirazione, sorrido. “Riesco a sognare anche mentre corro”, mi dico, con la
speranza che il tutto sia durato poco e che non se ne sia accorto nessuno. Sono
quasi a casa quando mi accorgo di stringere una mano in maniera quasi
innaturale. Il mio cuore accelera mentre rallentando apro il palmo e vedo una
pietra bianca. Una pietra bianchissima come non esistono…
Federico Saccani
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