LA GRANDE VISIONE
Racconto quello che mi è successo ieri correndo. Una storia vera.
Prima, però, è necessario un brevissimo preambolo…
Per un Lakota (tribù appartenente agli Oglala Sioux, abitanti nell’odierno Sud Dakota, nel nord degli USA), la Grande Visione “Wakanya Wowayanke” era il momento supremo della sua vita spirituale, l’attimo nel quale Terra e Cielo, corpo e spirito, sogno e veglia si congiungevano nella rivelazione unica e privata del mistero. Raggiungere la visione era un processo faticoso, fisicamente durissimo; erano necessari lunghi tempi di preparazione spirituale, sotto la guida degli sciamani (wichasa wakan) che tracciavano il percorso e la interpretavano.
In genere ci si allontanava dal villaggio, in solitudine, a pregare, a digiuno, aspettando la comparsa di un segno rivelatore, forse un animale, che avrebbe parlato o mostrato la via. Il Grande Spirito avrebbe svelato il disegno che aveva in mente.
… Sto correndo, il caldo è opprimente, la strada è dura. Durissima. Ho già percorso parecchi chilometri, è molto che corro, sono sulla via che da Calice conduce a Ca’ del Moro, passando per Eze. Una salita impegnativa, esposta al sole, ma non impossibile che sto patendo più del dovuto; e questo è strano. Più strano ancora è il fatto che non incontro anima viva. Sembra quasi innaturale. I sensi sono all’erta, capto qualsiasi rumore, i fruscii nel bosco che fiancheggia la via, le gocce d’acqua del piccolo ruscello che si infrangono sulla roccia, il battere le ali e il cinguettare degli uccellini sugli alberi, che fanno, in alcuni tratti, da volta alla strada.
Guardo prudentemente indietro ad ogni tornante, magari un ciclista, o qualche contadino… niente, le finestre delle abitazioni che incontro sono chiuse, sembrano occhi che mi fissano con orbite nere come la notte, vuote. Lo stesso vuoto che sento dentro di me, quando guardando il cronometro lo scorgo fermo. I secondi girano, ma i minuti non si muovono, in un perenne 00:00 inquietante. Un brivido bollente brucia e gela la mia schiena allo stesso tempo. Quant’è che ho superato la pietra che segnala i 2 km da inizio salita? Un’eternità. Eppure la strada dura poco più di tre chilometri. Dovrei essere arrivato. DEVO essere arrivato, urlo a me stesso. E continuo a correre. Continuo a salire.
Il cronometro è sempre fermo, un’ultima occhiata conferma tutte le mie paure, un sorso d’acqua dallo zainetto che porto sulla schiena è piccola consolazione, un misero appiglio di normalità al quale mi aggrappo con tutte le mie forze. Solo coincidenze, mi ripeto… solo coincidenze.
All’improvviso, quasi a destarmi dal torpore onirico che mi attanaglia, un urlo, un verso prorompe nel cielo, alzo lo sguardo un falco, o un altro grande rapace, non so riconoscerlo, disegna ampi cerchi. In quel punto la pendenza è molto elevata, il ritmo di corsa è lento. Il falco si poggia su un ramo di un grosso albero, poco davanti a me. Continuo a correre e a guardarlo, mi sembra di sprofondare, mi muovo ma non lo raggiungo. Le mie paure, improvvisamente scompaiono quando i miei occhi incontrano i suoi. Ancora quel suo grido stridulo, una, due, tre volte, Finnico si sveglia all’improvviso, un ululato esce senza volere dalla mia bocca, qualcosa di animalesco, di primordiale, di dimenticato si impadronisce per qualche istante del mio corpo, sento il cuore che accelera e i sensi che si acuiscono. Il falco mi sembra ora vicinissimo. Ci guardiamo ancora una volta, occhi negli occhi. Se devo essere sincero mi pare che, prima di spiccare il volo, annuisca soddisfatto. Divoro ad ampie falcate quella che mi sembra una interminabile curva, di colpo alzo la testa, quasi destato improvvisamente da un sogno, sono in cima, uno schiaffo di aria fresca lava il mio volto, la mia mente, il mio cuore. Un riflesso incondizionato mi porta a guardare l’orologio che… segna 25’ e pochi secondi. Scrollo il capo incredulo, bevo ancora un sorso e un paio di scooter mi sorpassano rombando.
La discesa verso Finalborgo è un attimo che mi permette di pensare.
Che abbia avuto la mia Grande Visione?
…
Federico Saccani
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